sabato 2 gennaio 2010

Io ti dò una cosa a te, tu mi dai una cosa a me.

E' questa la chiave di lettura della fine del 41 bis per Graviano?

Un fatto è certo: oggi più che mai, con le stesse Istituzioni che negano persino l'esistenza della Mafia, come potrebbero le stesse istituzione darle la caccia?

Come si può pretendere che si dia la caccia a qualcosa del quale si nega l'esistenza quando fa comodo, per poi, immediatamente dopo sbandierarne i risultati ottenuti nella eterna guerra fra questa e lo Stato?

Come si può far credere a una Nazione intera che nomi di delinquentucoli rubagalline e fino a un'ora prima sconosciuti assurgano improvvisamente a Pericolosissimi Capi Mandamento, o a Teste di Serie se non a Capi Dei Capi, Dei Capi, dei Capi, dei Capi... dei Capi...

Ma quanti cazzi sono questi cazzi di Capi Mafia?

O non è che per caso Il Capo sia uno solo, che nessuno OSA nominare e che come citava un vecchio adagio:

Il Diavolo è il primo a trarre vantaggio dal far credere che lui non esiste?



(dal Messaggero.it)

Caso Graviano, si riapre la partita del padrino che usò l'arma del silenzio



di Massimo Martinelli

ROMA (2 gennaio) - L’ultima volta che era apparso in pubblico, attraverso le telecamere a circuito chiuso del carcere di Opera, a Milano, che rimandavano la sua faccia pallida in un’aula del tribunale di Palermo, il boss aveva taciuto. «E’ un silenzio che parla», avevano commentato alcuni magistrati antimafia. Perchè era apparso chiaro a tutti che quell’11 dicembre 2009, davanti ai giornalisti di mezzo mondo che aspettavano di sapere se il padrino di Brancaccio avrebbe incastrato il capo del governo sulle stragi del ’93, Giuseppe Graviano aveva scelto di giocare una partita con lo Stato. Con un pezzo qualsiasi delle istituzioni: il ministero di Giustizia oppure la magistratura; il governo oppure il partito delle Procure. Con chiunque potesse favorirlo.

Il messaggio di Graviano era chiaro: «Posso parlare, se voglio; posso confermare o smentire Spatuzza che accusa Berlusconi; posso fornire tasselli mancanti alla ricostruzione giudiziaria degli anni delle stragi. In cambio chiedo che si ponga fine alla mia Guantanamo». La definì così, la vita in carcere. In tre paginette scritte di suo pugno mandate alla corte raccontò delle telecamere che lo seguivano anche in bagno, della luce accesa 24 ore al giorno, dell’impossibilità di incontrare qualsiasi essere umano al di fuori dei secondini che lo controllavano. E soprattuto dello smarrimento che leggeva negli occhi di suo figlio, che a dodici anni non ha mai potuto toccare suo padre.

E anche questa è una storia a parte, perchè quando la moglie del boss partorì in una clinica di Nizza, lui era in carcere già da tre anni. Eppure nessuno dubitò che fosse lui il padre, anche perchè nella stessa clinica diede alla luce un bimbo pure la moglie di Filippo Graviano, anche lui in carcere da tre anni: per una volta il regime di isolamento che circondava i due padrini di Brancaccio si era allentato per far uscire dal penitenziario due provette per la fecondazione artificiale. Fu da allora che la prigionia di Giuseppe e Filippo Graviano divenne simile a quella dei detenuti di Guantanamo; c’era da lavare uno sberleffo alle istituzioni e anche il fallimento dell’inchiesta della Procura di Palermo che non riuscì a individuare chi favorì la paternità dei due boss detenuti.

E adesso che il segnale di distensione è arrivato dalla magistratura, sono in molti a chiedersi ”cosa potrebbe dire”, quello che era stato il silenzio di Graviano. La mano tesa è arrivata da una corte diversa da quella che sta processando Dell’Utri, che aveva mostrato un certo fastidio per l’importanza data ai due boss di Brancaccio nemmeno un mese fa. E anche questo, forse, ha un significato preciso.

La prossima mossa sarà di altri magistrati, quelli della Procura Generale, che dovrebbero chiedere la riconvocazione di Graviano al processo Dell’Utri, affinchè il boss mantenga le promesse. Forse già il prossimo 8 gennaio, alla ripresa delle udienze, per confermare o smentire la teoria che vuole Berlusconi al vertice della cupola che decise le bombe del ’93. Alessandro Sammarco, legale del senatore Dell’Utri, è sereno: «Davanti ad altri giudici Giuseppe Graviano ha sempre smentito Spatuzza. Non potrà cambiare versione». Ma anche lui sa bene che le verità processuali cambiano, a seconda delle situazioni.



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