domenica 6 dicembre 2009

Lotta alla mafia o guerra fra cosche mafiose?

Da sempre abbiamo assistito, specialmente in Sicilia, più che a lotte dello Stato contro la mafia (in passato inesistenti per la verità) a guerre fra cosche mafiose.
Corleonesi contro Palermitani, Famiglia A contro Famiglia B, Famiglia C contro Famiglie associate, Cosa Nostra contro 'Ndrangheta, Camorra contro Cosa Nostra.


(da Repubblica.it)

Successi e contraddizioni
nella lotta alla mafia

di GIUSEPPE D'AVANZO


LA DEBOLEZZA di Cosa Nostra è scritta nelle cose. La leadership "corleonese" è in galera, se si esclude Matteo Messina Denaro. Le seconde file devono scontare decenni di carcere. In libertà, terze file e qualche "vecchia gloria" degli anni Settanta/Ottanta, ammesso che la nomenclatura di ieri corrisponda a quella di oggi e non ci siano uomini che non conosciamo, potenti con gran pedigree criminale, ma senza volto. La pressione degli apparati repressivi dello Stato non si allenta. È costante, invasiva e i risultati sono molto soddisfacenti. Come è accaduto ieri, ancora una volta dopo l'arresto di Domenico Raccuglia (15 novembre).

Cade nelle rete a Palermo Gianni Nicchi, 28 anni, mafioso sperto nonostante la giovane età, un "uomo di pistola" che l'arresto di Antonino Rotolo (giugno 2006) - il suo capo a Pagliarelli - ha lanciato ai vertici dell'organizzazione. A Milano, è stato preso Gaetano Fidanzati, 75 anni, un nero passato alle spalle di trafficante di droga (tra i più attivi), un presente di guida della famiglia dell'Acquasanta, lasciata vacante dai fratelli Galatolo. Un doppio, eccellente colpo. Un frutto succoso della collaborazione e dello spirito di sacrificio degli organi dello Stato. L'entusiasmo interessato di Silvio Berlusconi tende a dimenticarlo.

Questi ricchi raccolti, che possono ricondurre - anche presto - la patologia criminale siciliana a livelli fisiologici, sono possibili per il lavoro ostinato delle polizie e l'impegno tenace dei pubblici ministeri di Palermo e Milano. Dunque, di quelle burocrazie della sicurezza cui il governo non è in grado di assicurare adeguate retribuzioni e migliori risorse; di due procure da anni diventate bersaglio fisso degli assalti polemici del presidente del Consiglio; di quell'ordine giudiziario che appare l'obiettivo mai dimenticato dei punitivi progetti legislativi della maggioranza.

Berlusconi, anche con buone ragioni, è soddisfatto e dice: "A Palermo siamo riusciti a catturare Gianni Nicchi, che è il numero due di Cosa Nostra. E a Milano abbiamo catturato Danilo Fidanzati, che è il numero tre di Cosa Nostra". Al di là della classifica che, con mafia e mafiosi, lascia sempre il tempo che trova, è quel "siamo" che interessa di più. Berlusconi intende con quel "siamo", noi del governo e quindi io che lo guido? O, dietro quel noi, c'è la consapevolezza che Cosa Nostra può essere distrutta soltanto dall'impegno plurale, coordinato e ininterrotto di tutte le articolazioni dello Stato e della società, governo, Parlamento, amministrazioni, magistratura?

Diciamo che si può pensare che il presidente del Consiglio abbia la tentazione di cancellare con gli eccellenti risultati dell'azione repressiva delle polizie e della magistratura tutti i grattacapi che i ricordi di Gaspare Spatuzza, mafioso di Brancaccio, hanno riproposto. Ora non c'è dubbio che le parole del nuovo testimone dell'accusa nel processo Dell'Utri e nelle inchieste (riaperte) per le stragi del 1992 e 1993 non abbiano ancora adeguati riscontri. Come è fuori discussione che la discovery delle sue rivelazioni sia stata prematura e probabilmente l'anticipazione ne pregiudicherà l'esito, comunque problematico.

Tuttavia quell'accusa - "Berlusconi e Dell'Utri sono i responsabili delle stragi del 1992 e 1993" - è così tragica che impone di essere verificata con rigore per giudicarla o una menzogna o una spaventosa verità. Lasciarla galleggiare è il peggio che può accadere. Anche Berlusconi dovrebbe comprenderlo e sapere che non sarà l'arresto di Nicchi e Fidanzati - e si spera presto la cattura di Matteo Messina Denaro - a eliminare la necessità, il dovere di accertare quanto è accaduto nella transizione dalla Prima alla Seconda Repubblica, stagione scandita dalle cariche di tritolo.

Anche perché le difficoltà in cui vivono le forze dell'ordine e l'ostilità manifesta riservata alla magistratura non sono le sole contraddizioni della politica della sicurezza del governo. Se ne possono rintracciare altre. La vendita dei patrimoni confiscati alla mafia appare a molti addetti un "segnale positivo" lanciato a Cosa Nostra perché le nuove procedure consentono alle famiglie di rientrarne in possesso attraverso prestanomi. Il dibattito sull'abolizione del "concorso esterno in associazione mafiosa" appare ad altri un modo per evitare al premier una futura imputazione e una garanzia per Marcello Dell'Utri, magari da incassare in Cassazione. E anche un espediente per rassicurare la "borghesia mafiosa": è vero, il gioco contro le famiglie di Cosa Nostra è molto duro, ma contro chi ha protetto gli interessi criminali, ricavandone degli utili, può dormire tra due guanciali, il governo non lascerà indietro nessuno.



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